sabato 1 febbraio 2014

ABORTIRE E’ UN DIRITTO FONDAMENTALE DELLA DONNA







Il 1° febbraio 2014, FREEDOM FOR BIRTH ROME ACTION GROUP scenderà in piazza per rivendicare il diritto di ogni donna di autodeterminarsi rispetto al proprio corpo.
Alla luce delle recenti derive maschiliste che, in Parlamento Europeo come in Spagna, stanno gravemente compromettendo la libertà delle donne di decidere quando, se e come fare un figlio, ci sembra il momento per fare alcune riflessioni sulla Legge 194.
Noi stesse abbiamo in più occasioni sostenuto che la Legge 194/78 debba essere difesa. Tuttora lo sosteniamo e lo gridiamo con ferma convinzione, così come lo grideremo il prossimo 1° febbraio 2014.
Tuttavia, sentiamo anche l’esigenza di rivendicare che la Legge 194 va migliorata. Ecco il perché.
Il diritto all’aborto nasce con la donna, non con una legge di stato: è un diritto umano e inviolabile della persona.
A fronte di un diritto della persona umana, il compito di una legge è riconoscerne l’esistenza e garantirne la pratica attuazione.
La Legge 194/1978 non riconosce alle donne un diritto all’aborto, non riconosce che l’aborto sia un diritto fondamentale della persona, innato in ogni donna. Di conseguenza, lo regolamenta in modo restrittivo e non offre alcuna garanzia di effettività alle donne.
Nell’impianto della 194, la scelta della donna di abortire è correlata ad un “serio pericolo” per la sua salute fisica o psichica. Pur essendo previsto un ampio ventaglio di motivazioni (salute fisica, malformazioni del feto, motivi di ordine sociale, economico o familiare), queste assumono rilevanza solo se mettono a rischio la salute della donna; scontato che per poter scegliere di abortire ci debba necessariamente essere una di queste condizioni.
Quella della donna che si rivolge al medico o ad una struttura sanitaria chiedendo l’assistenza per l’aborto, non è considerata una scelta, ma una mera “intenzione”, da analizzare, vagliare, sindacare, approfondire.
Inizia, così, una vera e propria indagine sui “problemi” che (necessariamente) devono aver portato la donna a chiedere l’interruzione della gravidanza, un’indagine finalizzata non solo al sostegno della donna - che poi questo sostegno sia richiesto o non, poco importa! -, ma piuttosto alla ricerca di una risoluzione di questi problemi. Un colloquio, lo sappiamo, frutto di un compromesso storico e magari, nella pratica, meramente burocratico, eppure imprescindibile nell’iter della 194.
Nessuna altra legge statale prevede con altrettanta enfasi la promozione di ogni “opportuno intervento atto a sostenere la donna, offrendole tutti gli aiuti necessari sia durante la gravidanza sia dopo il parto”.
Nessuna altra legge prevede con altrettanta enfasi la necessità di mettere la donna “in grado di far valere i suoi diritti di lavoratrice e di madre”, come invece questa legge che, in realtà, dovrebbe garantire le donne che non vogliono diventare madri, che siano o meno lavoratrici.

Insomma, il medico deve assicurasi che la donna sia davvero convinta di interrompere la gravidanza e che le (presupposte) motivazioni non possano essere superate.
Dopo il colloquio sulle motivazioni, il medico rilascia, di fatto, un “nulla osta”, con cui la donna si può presentare in ospedale. Non subito però: lei deve riflettere ancora per sette giorni, dovendo osservare l’invito del medico di soprassedere per un’ulteriore settimana.
La Legge 194, poi, pur prevedendo che le Direzioni Sanitarie e le Regioni siano tenute ad assicurare l’assistenza anche in caso di obiezioni di coscienza, non prevede alcun obbligo cogente né sanzioni per il caso in cui la donna venga caldamente invitata a recarsi altrove per l’aborto (anche terapeutico), come ogni giorno accade.
La stessa possibilità di esercitare l’obiezione di coscienza - e non ci addentriamo qui sul tema - finisce per relegare ad un rango meramente secondario quello che è un diritto fondamentale della donna, prevalendo su questo nella realtà dei fatti.
Crediamo, allora, sia giunto il momento di riconoscere che:
- le motivazioni che inducono una donna all’aborto non devono essere vagliate, giudicate o risolte;
- quello all’aborto è un diritto di rango costituzionale, appartenente alla persona umana, che trova fondamento non soltanto nel diritto alla salute ma anche, ed anzi soprattutto, nel diritto di ogni donna di esplicare la propria personalità.
Prevedere che il medico o la struttura sanitaria si debbano “prendere carico” delle (presupposte) problematiche di una donna che vuole abortire - per tentare di dissuaderla! – significa disconoscere che:
la donna è sovrana e competente nel decidere per sé e per il proprio corpo;
la scelta della donna non va indagata;
la donna potrebbe non avere motivazioni socialmente rilevanti all’aborto e potrebbe decidere di interrompere la gravidanza anche se portarla a termine non le causerebbe un problema di salute fisica o psichica o un’infermità mentale.
In realtà, l’esclusione economica e la marginalizzazione sociale delle donne, le discriminazioni sul lavoro, la tutela della salute, piuttosto che essere ridotte a meri pretesti per controllare le scelte delle donne, dovrebbero essere seriamente affrontate nelle sedi opportune: nelle aule parlamentari, con le riforme del lavoro e dello stato sociale; con i programmi di governo e con i bilanci dello stato e delle regioni. Senza ipocrisie e paternalismi.
E, intanto, finanziare, potenziare, valorizzare i Consultori e favorirli nella loro importante attività di prevenzione e promozione della salute della donna, sarebbe già un segno di buona volontà.
Siamo, quindi, veramente sicure che in Italia la situazione non sia già simile a quella che si prospetta in Spagna? Uno sguardo alla recente proposta di legge francese potrebbe forse aiutarci a capirlo.
Freedom for Birth Rome Action Group

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