E' di tre giorni fa il comunicato stampa con il quale Il Presidente della Regione Lazio Zingaretti ha annunciato l’adozione di un decreto che, tra le altre disposizioni, determina la misura del rimborso dellespese per il parto a domicilio.
In attesa della pubblicazione del testo ufficiale, ci preme intanto commentare quello che evinciamo dalla nota informativa e, in particolare, due aspetti: l’entità del rimborso, fissata forfettariamente in € 800,00; l’attestazione che, a quanto sembra, deve essere rilasciata dal ginecologo come nulla osta al parto in casa.
Sul primo aspetto, immaginando che il parametro utilizzato sia stata la somma minima che la Regione rimborsa alla struttura ospedaliera in caso di parto senza complicanze e con neonato in salute, pari complessivamente ad € 1.832,00 (Tariffa per DRG "parto vaginale senza complicanze" € 1.272,00 e tariffa per DRG "neonato normale" € 560,00, secondo il Tariffario regionale aggiornato al maggio 2012), ci sfugge francamente il motivo per cui alle donne che partoriscono a casa venga riconosciuta una somma di soli € 800,00 e non sia invece rimborsata la stessa somma di € 1.832,00.
Tanto più considerato che la scelta di partorire a casa non soltanto non aumenterebbe la spesa per la Regione(la quale pagherebbe comunque le tariffe DRG se il parto si svolgesse in ospedale), ma addirittura comporterebbe un risparmio di spesa pubblica, sia a breve che a lungo termine: minor impegno delle strutture ospedaliere (risorse umane, materiali e posti letto); riduzione delle spese per interventi medici e/o chirurgici, per le correlate terapie farmacologiche e per il decorso post-operatorio; riduzione della spesa perdegenza ospedaliera.
Studi scientifici hanno dimostrato, infatti, che il parto in ambiente extraospedaliero, rispetto ai parti ospedalieri con pari gravidanza fisiologica, riduce il tasso di interventi medici e quello di complicanze post-parto. Per fare solo un esempio tra i tanti: un aumento dei parti in casa ridurrebbe automaticamente i tagli cesarei ingiustificati (e sappiamo che, a seguito di un'indagine condotta nel 2012 dai NAS, su incarico della Commissione Parlamentare Salute, nel Lazio sono risultati "ingiustificati" ben il 43% dei tagli cesarei).
Insomma, se la Regione riconoscesse un rimborso pari alle tariffe DRG piuttosto che uno forfettario, si gioverebbe comunque di un "risparmio". Per non parlare, poi, dei migliori esiti in termini di salute individuale e sociale, quindi, per restare ancora sul piano della spesa pubblica, della riduzione dei costi a ciò correlati.
Ci sembra, forse, che il nodo stia nel solito "dilemma" tra bilancio di cassa e di competenza: come dire, per miopia, si preferisce accumulare maggiori debiti con le strutture ospedaliere, piuttosto che destinare nell'immediato (minori) risorse alle donne!
Senza considerare, poi - ciò che più conta! - , che trattandosi di un rimborso solo parziale, la libertà di scelta delle donne non è pienamente garantita: quante donne, infatti, non potranno sostenere economicamente la restante parte delle spese per l’assistenza ostetrica e pediatrica domiciliare e saranno perciò costrette a partorire in ospedale, senza realmente volerlo?
Crediamo, invece, che il rimborso delle spese per il parto a domicilio debba essere concepito per quello che realmente è: una misura necessaria per garantire l’autodeterminazione delle donne al parto, per rendere effettivo il diritto di scegliere come e dove partorire, piuttosto che una forma di “risparmio” (per non dire profitto!) per la Regione. Ma, tant’è.
C’è, comunque, di buono che le donne che ad oggi hanno partorito a casa e che hanno visto rigettare le loro richieste di rimborso (o hanno subìto l'imbarazzante silenzio da parte delle USL), potranno sperare di recuperare, quanto meno, questa esigua somma di € 800,00, chiedendo il riesame dei provvedimenti di diniego esplicito o implicito.
Siamo, quindi, fiduciose che le istanze di rimborso e i solleciti che abbiamo curato come Freedom for BirthRome Action Group (finora “temporaneamente” archiviate per assenza di attuazione del Decreto 29/2011), verranno finalmente e giustamente accolte, seppur nei ristretti, amari limiti forfettari.
Quanto all’attestazione del ginecologo che parrebbe necessaria (addirittura) per partorire a casa, ecco cosa pensiamo.
E' vero che l'attestazione della gravidanza fisiologica proviene solitamente da soggetto abilitato alla professione medica. E ciò secondo una disposizione normativa (l'art. 48 D.Lgs. 206/2007) alquantodiscutibile, che ha l'effetto pratico di costringere la donna a dover necessariamente fare almeno una visita con un medico ginecologo, laddove avrebbe tutto il diritto di optare per un modello di assistenza ostetrica (che, peraltro, si rivela anche più efficace, come ci dicono le Linee Guida dell’ISS sulla gravidanza fisiologica!).
E' altrettanto vero, però, che l'ostetrica è la figura professionale sanitaria abilitata, per espressa previsione di legge, ad assistere in autonomia la donna per l’intera gravidanza fisiologica e nel travaglio e parto fisiologici. E' l'ostetrica, del resto, la professionista competente a valutare l'insorgere del pericolo di una involuzione in senso patologico e ad attivare l’intervento del medico ginecologo.
Ci chiediamo, quindi, perché mai la donna che ha scelto, come legittimamente ha diritto a fare, di essere seguita da un'ostetrica, reputando questo tipo di assistenza sanitaria più rispettosa dei suoi bisogni e della sua personalità, in prossimità del parto dovrebbe (di nuovo) necessariamente sottoporsi ad una visita con il ginecologo, magari mai visto nei primi sette mesi di gravidanza, per avere da questi il “nulla osta” alla sua scelta di partorire a casa?
Se effettivamente contenuta nel decreto che sarà pubblicato, questa disposizione ci sembra decisamente sminuente del ruolo, della competenza e dell’autonomia professionale delle ostetriche, in contrasto con le norme che disciplinano il loro ordinamento professionale e persino superflua, considerato che, come ogni professionista, anche l'ostetrica assume una responsabilità professionale allorquando accetta di prestare assistenza domiciliare alla donna partoriente, potendo essere chiamata a rispondere per incarichi accettati o eseguiti con imprudenza, imperizia, negligenza.
Ma, soprattutto, e come al solito, l'imposizione di un nulla osta del ginecologo ci pare davvero poco rispettosa dell’autonomia decisionale delle donne.
Per queste ragioni, speriamo vivamente che si tratti solo di un "equivoco" generato dal comunicato stampa e che il testo ufficiale non imporrà questa condizione.
Detto ciò, ci auguriamo che lo spirito del decreto Zingaretti sia, più che altro, quello di definire le situazioni pregresse e superare l'empasse nelle quali si trovano oggi le Usl rispetto alle (ben più che "dieci") richieste di rimborso delle spese per il parto a domicilio già inoltrate.
Per il futuro, infatti, crediamo sia importante superare e modificare il D.P.C.A. n. 29/2011, deficitario non solo, come riconosciuto dallo stesso Zingaretti, per non essere mai stato immediatamente applicabile, ma per diversi altri motivi.
Il Decreto Polverini, infatti: non riconosce il diritto delle donne di scegliere dove e come partorire e, men che meno, il diritto al rimborso delle spese per il parto in ambiente extraospedaliero; è in contrasto con i protocolli internazionali sotto diversi aspetti (prescrivendo, per fare solo un esempio tra i tanti, che il domicilio sia distante non più di 20 minuti e 7 chilometri di raggio da un ospedale di II/III livello, mentre si ritiene congrua la sola condizione di tempo di trenta minuti); è in contrasto con le normative statali che delineano le competenze professionali dell'ostetrica (che, secondo il Decreto 29/2011 deve comprovare un'esperienza quinquennale di gestione di sala parto in autonomia, laddove invece per legge è competente all'assistenza al parto sin dal conseguimento del titolo abilitante); impone che le case maternità abbiano i requisiti strutturali propri di strutture socio-sanitarie (laddove, per definizione, esse sono luoghi assimilabili ai domicili privati).
In altri termini, ci sembra sia proprio giunto il momento, atteso da anni, che la Regione Lazio dedichi al tema del parto in ambiente extraospedaliero la giusta attenzione, disciplinando la materia con legge regionale piuttosto che con atto di natura secondaria.
Una legge che, innanzitutto, riconosca alle donne il diritto al rimborso delle spese per il parto in ambiente extraospedaliero, pieno, incondizionato e immediatamente esigibile, quale strumento per rendere effettivo il diritto di scegliere dove e come partorire, riconosciuto dall'art. 8 della Cedu e dall'art. 2 e 32 della Costituzione italiana e, più in generale, il diritto di scegliere il luogo in cui ricevere l'assistenza sanitaria, così come riconosciuto dalla Legge istitutiva del SSN; che non imponga per il parto a casa requisiti superflui ed eccessivamente restrittivi, alla luce dei protocolli internazionali e delle stesse leggi vigenti in altre regioni italiane; che disciplini il parto in casa in modo rispettoso della professionalità dell'ostetrica; che restituisca alle case maternità la dimensione domiciliare che le connota per definizione.
Soprattutto, speriamo in una legge che, in generale, promuova un cambiamento culturale che riporti a considerare il parto e la gravidanza come eventi normalmente fisiologici, che promuova il rispetto della fisiologia e della dimensione emotiva di questi eventi, che voglia davvero tutelare la salute e il benessere psicofisico di madre e bambina/o, che sia finalmente coerente con le raccomandazioni dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, con le indicazioni provenienti dalle Linee Guida dell’Istituto Superiore di Sanità, con le evidenze scientifiche.
Questo è quello che vogliamo e ciò per cui quotidianamente ci impegniamo.
Nessun commento:
Posta un commento
E' possibile commentare questo post. Lo può fare chiunque, non è necessario essere iscritti. I commenti non sono moderati e quindi vi chiediamo di rispettare alcune semplici regole:
rimuoveremo commenti che nel linguaggio o nei contenuti siano razzisti, sessisti o omofobi. Non accettiamo commenti che siano offensivi o diffamatori nei confronti di persone.